C. S. LEWIS E LE SCREWTAPE LETTERSqui riproposte nella traduzione inedita di Carlo Striano
1. Oggi la verità è occultata dal linguaggio - di Joseph Ratzingerda un intervento su MicroMega (luglio 2000) Quanto sia oggi antimoderno interrogarsi sulla verità lo ha genialmente esposto lo scrittore e filosofo inglese C.S. Lewis nel bestseller Lettere di Berlicche, apparso per la prima volta negli anni Quaranta. Il libro consta di lettere fittizie di un diavolo di gerarchia superiore che istruisce un principiante sull'opera di tentazione dell'uomo, come lo debba correttamente tentare. Il piccolo demonio aveva espresso al suo superiore la preoccupazione che proprio persone particolarmente intelligenti avessero letto i libri sapienziali degli antichi e potessero così giungere sulle tracce della verità. Berlicche lo tranquillizza facendogli notare che il punto di vista storico, al quale fortunatamente si sarebbero lasciati indurre dagli spiriti infernali gli eruditi del mondo occidentale, significava proprio questo, "che l'unica domanda, che con certezza nessuno avrebbe posto, sarebbe stata quella sulla verità di ciò che veniva letto; al suo posto ci si sarebbe interrogati sulle influenze e sulle dipendenze, sull'evoluzione di un determinato scrittore, sulla storia del suo influsso e così via". Josef Pieper, che nel suo trattato è entrato in merito all'interpretazione di questo passaggio di C. S. Lewis, fa presente a questo proposito che le edizioni per esempio di Platone e di Dante organizzate nei Paesi di regime comunista presentano di volta in volta una introduzione, che comunica al lettore una comprensione "storica" ed escluderà quindi la domanda sulla verità. Una scientificità diretta in tal modo agisce da immunizzazione nei confronti della verità. La domanda, se e in che misura l'esposizione dell'autore sia vera sarebbe una domanda non scientifica; porterebbe fuori dall'ambito del documentabile e del dimostrabile, ricadendo nell'ingenuità del mondo precritico. In tal modo viene anche neutralizzata la lettura della Bibbia: possiamo dimostrare quando e in quali condizioni è sorta una testimonianza e così l'abbiamo classificata nella categoria storica, che in ultima analisi non ci riguarda. Dietro questa modalità di "interpretazione storica" sta una filosofia, un atteggiamento di principio nei confronti della realtà, che ci dice: è insensato chiedersi che cosa sia; possiamo solo chiederci ciò che possiamo fare con le cose. Non è questione di verità, ma di prassi, per dominare le cose a nostro vantaggio. Da una tale apparentemente evidente limitazione nei confronti del pensiero umano sorge ovvia la domanda: che cosa ci serve? Per che cosa ci serve? Per che cosa noi stessi esistiamo? All'osservatore attento, in questa moderna presa di posizione, appaiono evidenti al contempo una falsa umiltà e una falsa superbia: la falsa umiltà, che non riconosce all'uomo la possibilità della verità, e la falsa superbia, con la quale egli si pone sopra le cose, sopra la verità, elevando a finalità di tutto il suo pensiero l'allargamento del suo potere e il dominio sulle cose. Ciò che in Lewis appare in forma ironica, lo possiamo oggi trovare presente scientificamente nella letteratura. In essa la domanda sulla verità viene apertamente emarginata come non scientifica. L'esegeta tedesco Marius Reiser ha recentemente richiamato la parola di Umberto Eco nel suo famoso romanzo Il nome della rosa, dove dice: "L'unica verità si chiama: studiare, per liberarsi dalla passione morbosa per la verità". Il fondamento principale per un tale inequivocabile rifiuto della verità consiste in ciò che oggi si chiama la "svolta linguistica": non si può retrocedere dietro alla lingua e le sue immagini, la ragione è condizionata dalla lingua e legata alla lingua. Chi riflette su queste visioni si riconoscerà quasi immancabilmente in un penetrante passo del Fedro di Platone. Socrate racconta qui a Fedro una storia, che aveva appreso dagli antichi, che erano a conoscenza della verità. Una volta Theuth, "Padre delle lettere" e "Dio del tempo", si recò dal re egizio Thamus di Tebe. Informò il sovrano sulle diverse arti da lui scoperte e in particolare sull'arte da lui ideata dello scrivere. Magnificando la sua scoperta avrebbe detto al re: "Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e capaci di memoria; poiché è stata inventata come strumento di aiuto per la memoria e per la saggezza". Ma il re non si lasciò impressionare. Egli prevedeva che la conseguenza dell'arte della scrittura sarebbe stata il contrario. "Perché essa ingenererà oblio nelle anime di chi la imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più all'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti". Platone non rifiuta la scrittura in quanto tale, come noi le nuove possibilità dell'informazione, che utilizziamo con gratitudine; egli lancia un allarme, la cui serietà viene quotidianamente dimostrata dalle conseguenze della svolta linguistica e da molte circostanze. H. Schade indica il nocciolo della questione, che cosa Platone abbia da dire oggi con questo testo: "Ciò da cui Platone mette in guardia è il lasciarsi prendere la mano da un metodo filologico con una conseguente progressiva perdita di realtà". Laddove la scrittura, lo scritto, diviene barriera al contenuto, essa stessa diviene una controarte, che non rende l'uomo più sapiente, ma lo esilia in una illusoria e malata sapienza. Qui siamo giunti al nocciolo della disputa tra la fede cristiana e un determinato tipo di cultura moderna, che vorrebbe ben spacciarsi per la cultura moderna in generale, ma - grazie a Dio - ne è solo una modalità. Ciò diventa per esempio molto evidente nella critica che il filosofo italiano Paolo Flores d'Arcais ha espresso nei confronti dell'enciclica Fides et ratio. Proprio perché l'enciclica insiste sulla necessità della domanda della verità, egli dichiara "che la cultura cattolica ufficiale (proprio quella dell'enciclica) non ha più nulla da dire alla "cultura tout court"". Ciò però significa anche che la domanda sulla verità non c'entra con la "cultura tout court". ma questa "cultura tout court" non è piuttosto un'anticultura? E la sua pretesa di essere la cultura in generale, non è forse una pretesa arrogante, sprezzante dell'uomo? Che si tratti proprio di questo diviene evidente quando Flores d'Arcais attribuisce all'enciclica del Papa "conseguenze letali per la democrazia" e identifica il suo magistero con la tipologia "fondamentalista" dell'Islam. Motivo per tale affermazione sarebbe il riferimento al fatto che il Papa ha definito le leggi che permettono l'aborto e l'eutanasia prive di un'autentica validità giuridica. Perciò chi si mette contro un parlamento eletto e cerca di esercitare un potere mondano con pretese ecclesiastiche dimostra che il suo pensiero resta essenzialmente improntato dal sigillo del dogmatismo cattolico. Tali affermazioni presumono che non ci possa essere nessun'altra istanza al di sopra delle decisioni di una maggioranza. La casuale maggioranza diviene l'assoluto. Così l'assoluto, l'infallibile è di nuovo presente. Siamo abbandonati alla signoria del positivismo e all'assolutizzazione del caso, anzi del manipolabile. L'enciclica, proprio per la sua insistenza sulla capacità di verità, è un'apologia davvero necessaria della grandezza dell'uomo contro quella che si spaccia per la "cultura tout court". Naturalmente è difficile reintrodurre nel dibattito pubblico la domanda sulla verità, all'interno del canone metodologico che si è oggi affermato come "sigillo della scientificità". È necessario un radicale dibattito sull'essenza della scienza, sulla verità e sul metodo, sul compito della filosofica e le sue possibili vie. Il Papa non ha identificato come un compito dell'enciclica l'entrare in merito alle questioni pratiche, se e come la verità possa tornare ad essere "scientifica". Egli però indica perché ci dobbiamo assumere questo compito. Non ha voluto assumersi il compito dei filosofi, ma ha evidenziato il compito di lanciare un segnale d'allarme contro una tendenza autodistruttiva della "cultura tout Proprio questo segnale d'allarme è un vero atto filosofico, pone nel presente l'origine socratica della filosofia e testimonia così la forza filosofica che è presente nella fede biblica. Compito della filosofia non può essere sottomettersi a un canone metodologico, che ha un suo diritto in singoli settori del pensiero.Il suo compito deve essere proprio quello di riflettere sulla scientificità nel suo insieme, cogliere criticamente la sua essenza e contemporaneamente operare un passaggio, in modo razionalmente responsabile, verso ciò che propriamente le dà senso. La filosofia deve sempre interrogarsi sull'uomo e da lì andare sempre alla ricerca della vita e della morte, di Dio e dell'eternità. 2. La fede di Lewis - di Alberto CastelliDalla presentazione alle Lettere di Berlicche, ed. Mondadori 1947 ...Le "Lettere di Berlicche" raggiungono la semplicità della grande bellezza presentando sotto l'implacabile luce della precisa e fredda logica dell'odio l'ardente ricchezza della vita cristiana. Negli altri suoi libri di carattere religioso e morale (prima che uscissero le "Lettere" il più importante di essi fu "Il problema del Dolore"), C. S. Lewis ci rivela con molta delicatezza che era stato ateo, che poi ci fu un tempo in cui cominciò a "temere che il Cristianesimo fosse vero" e che ora egli appartiene alla Chiesa d'Inghilterra. La storia allegorica della sua finale accettazione del Cristianesimo attraverso l'esame dei vari movimenti spirituali, venne raccolta nelle pagine alle quali, richiamandosi al "Pilgrim's Progress" di John Bunyan, diede il titolo: "The Pilgrim's Regress" ("Il Ritorno del Pellegrino"). Apparirà chiaro dalle "Lettere di Berlicche" che egli aderisce a quel ramo dell'anglicanesimo che si chiama "Chiesa Alta" vale a dire a quello che più si avvicina sia nelle credenze sia nelle forme esterne del culto alla Chiesa Madre anche dell'Inghilterra, alla Chiesa cattolica. Qui meglio che negli altri suoi scritti il Lewis è in generale riuscito in ciò che più d'una volta promette di voler fare, vale a dire di mostrare ciò che "tutti i cristiani di tutte le Chiese sono d'accordo nell'ammettere". Veramente egli accetta molti punti importantissimi di dottrina che alcuni, anche fra le persone costituite in gerarchia nella Chiesa d'Inghilterra, non professano. Nelle "Lettere" sarà agevole riscontrare come egli sia esplicito e sicuro nella fede sul dogma della Santissima Trinità e sull'Incarnazione come sugli insegnamenti della Chiesa relativi al Purgatorio e agli Angeli custodi. In uno dei volumetti che raccolgono i suoi discorsi radiofonici ecco come si esprime (riecheggiando forse la seconda parte dell'"Uomo Eterno" di Chesterton) a proposito della Divinità di Cristo: "Sto sforzandomi a questo punto di impedire che si ripeta quella sciocchezza che si sente spesso dire nei Suoi riguardi: "Son disposto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale ma non accetto la Sua pretesa di essere Dio". Questa è proprio quella cosa che non dobbiam dire. Un uomo che essendo unicamente uomo avesse detto quelle cose che Gesù ha detto non sarebbe un grande maestro di morale. O sarebbe un pazzo - sullo stesso livello di quei che affermano di essere uova affogate - oppure sarebbe il Demonio dell'Inferno. Bisogna decidersi. O quest'uomo fu ed è il Figlio di Dio: oppure fu un matto o qualcosa di peggio. Potete segregarlo come un mentecatto, potete sputargli addosso o anche ucciderlo come demonio; come potete gettarvi ai suoi piedi e chiamarlo Signore e Dio. Ma non facciamoci avanti ad asserire con assurda condiscendenza che Egli è un grande maestro di morale". 3. Lewis e il cristianesimo come esaltazione della personalità - di Martino SartoriLewis, Berlicche e quel "falso" cristianesimo che ama la morale ma non la vita Lewis abbandonerà la fede all'età di dodici anni intraprendendo una vita da esteta, dedicandosi con successo e senza patemi alla cultura, al successo, alle donne. Ma succederà che "dentro ad ogni esperienza pura" continuerà a percepire "qualcosa che non può essere spiegato". Dirà nella sua autobiografia di che cosa si tratta: "Quello che mi piace dell'esperienza è che si tratta di una cosa così onesta. Potete fare un mucchio di svolte sbagliate, ma tenete gli occhi aperti e non vi sarà permesso di spingervi troppo lontano prima che appaia il cartello giusto. Potete aver ingannato voi stessi, ma l'esperienza non sta ingannando voi. L'universo risponde il vero quando lo interrogate onestamente". Con questo pungolo Lewis farà i conti per tutta la vita cercando di metterlo a nudo nelle sue opere, e ci riuscirà nell'ultimo romanzo A viso scoperto dove nelle parole del protagonista sembra di rivedere lo stesso scrittore. "Proprio perché tutto era così bello nasceva dentro di me un desiderio, sempre lo stesso: da qualche parte doveva esserci qualcosa di ancora più bello. Tutto sembrava dirmi, Vieni! Ma io non potevo andare... Mi sentivo come un uccello in gabbia, che vede gli altri uccelli della sua specie volare verso casa". Lo scrittore non accetta la visione di cristianesimo che passa nell'occidente liberale dei nostri giorni, in cui Dio è visto come: "il tipo di persona che sta sempre a spiare se uno se la spassa, e poi cerca di impedirglielo". Anzi rilancia la questione nelle lettere di Berlicche dicendo che si è veramente cristiani in virtù e non nonostante i propri desideri più profondi: "Hai permesso al paziente di leggere un libro che veramente gli piaceva, del quale veramente godeva. In secondo luogo gli hai permesso di fare una passeggiata fino al vecchio mulino e prendervi il tè. Una passeggiata attraverso un paesaggio che veramente gli piaceva e fatta da solo. In altre parole gli hai offerto due veri e positivi piaceri. Sei stato davvero così ignorante da non vederne il pericolo?". Lewis non concepisce il cristianesimo come castrazione della personalità ma come una sua esaltazione: "In fondo Egli è un edonista. Tutti quei digiuni, quelle vigilie, come i roghi e le croci, sono facciata. O soltanto come la spuma sul lido del mare. Laggiù in alto mare, nel Suo mare, c'è il piacere, e sempre maggior piacere. Ha riempito tutto il Suo mondo di piaceri. Vi sono cose che gli essere umani possono fare tutto il giorno senza che egli vi badi ne tanto ne poco: dormire, lavarsi, mangiare, bere, fare all'amore, giocare, pregare, lavorare. Ogni cosa deve essere distorta prima che ci serva in qualche modo". Per questo vale la pena di rispolverare questo libro, magari leggerlo, da soli, con onestà quasi da bambini. Perché si tratta di inno alla vita e al valore, alla dimensione di ogni piccolo gesto, con gli occhi di chi ha scritto che "incontrare Dio è la cosa più scomoda al mondo, perché egli sta costruendo una casa tutta diversa da quella che avevate in mente voi. Pensavate di costruire una casetta ammodo: ma Lui sta costruendo un palazzo. Intende venirci a vivere Lui stesso". Buona lettura.