ELOGIO DELLA NOTTE
bruxelles 050382/da comblain 1980
Viene la sera con il silenzio,
a ventiquattr’ore la clessidra
ribalta il suo carico d’assenzio.
All’idra del tempo,
mutilata di un corno, già l’altro
cresce, il nuovo giorno, e si prepara
alla battaglia di domani. Nero
inchiostro cola sugli alberi, mentre
gli uccelli si accomodano tra i rami,
pigolando sempre più raramente.
Sì. Con ali di gufo viene la sera,
sostenendo il sipario di tenebra
che dalla nera terra emana, e viene
zittendo gli squittii, gli zirli, i fischi
del merlo, e il ciangottare afono
del corvo. Il gallo di ferro girando,
in cima al campanile ha cigolato,
al cambiar del vento e si è fermato
con il becco teso, indicando
quel punto della rosa dove il soffio
del dio ha spinto l’aria. La notte
suo regno decreta. La legge dell’oscuro
mette fine alla distinzione di cielo
e terra. Dal fondo del bosco avanza
l’oscurità: la regina notte
s’avanza con passi di queto potere.
Il suo mantello stende sull’erba
dei prati, sulle bacche accese
di rosso e amare, sulle funi tese
con panni ad asciugare, sulle tane,
sui monticelli delle talpe,
sui letti degli sposi, e dentro
la stalla gli animali ansiosi
si agitano presentendo il sonno
che alla morte assomiglia.
Avanza la barca della notte
portando entro sua chiglia
doni di sogni e nuvole ventose.
E di tutti i colori resta solo
il nero. Così ogni giorno germoglia
nel ventre della notte, come la foglia
cresce dalla foglia, cresce e poi secca
e l’animale smisurato, il tempo,
lo recide con le taglienti sfere
dell’orologio astrale. E il giorno grida
al nuovo giorno, mentre il tempo l’uccide,
come il maiale che sull’aia stride mentre
si svena, grida il nuovo giorno la sua
pena, la sua domanda che non ha
risposta. Con un sorriso viola
la notte accoglie il suo figlio
appena nato, lo coccola, lo fascia,
gli tende il seno lunare, poi lascia
che cammini incontro al sole,
che già dietro le montagne appare,
come un re glorioso e insieme
con l’allodola si innalza il giorno
con un volo verticale
e un grido.
Chi grida?
Sono io che grido rinchiuso ancora
nella placenta del sonno, illuso
che la notte fosse eterna e l’alto
canto del gallo non accendesse
la lanterna del sole. Perché io sono
quel nemico che il tempo spia
e al quale conta l’ore, quel tale
che cerca d’abituarsi alla sua sorte,
al dono, alla condanna, alla speranza
contr’ogni speranza, alla sua presenza
interminata più del tempo, clemente
come l’olio, lieve come un soffio
di brezza che mi accarezza la fronte
calda in su la sera. Soda è la notte,
il regno dell’oscuro. Perché gridi?
A metà del banchetto il vino
è terminato. Perché hai paura? Perché
la notte è oscura. La notte è oscura
perché ha seno di madre. Durante
la notte il mondo fu creato, e sempre
di notte il mondo fu salvato, e nella terza
notte avverrà il passaggio.
Guarda bene: ogni cosa è al suo posto
come sempre, nell’ordinata geometria
della realtà: il piano del tavolo
è di marmo, come sempre, le sigarette
son rotonde, se stendi la mano
e fai ruotare la rotella
dell’accendino le scintille sempre
brilleranno. Sullo scaffale a destra
c’è la bottiglia con l’aceto. L’olio,
la ciotola del sale, lo zucchero,
più in là, e l’origano profumato,
la bottiglia del vino rosso, vuota
a metà, le mele verdi nel cestino,
e l’orologio elettrico alle spalle,
sul muro, segna ogni secondo
il destino di tutte questa cose.
L’aceto è aspro, la bottiglia è tonda,
bianco è il sale e all’infinito
si stende intorno l’universo,
che fa centro su ogni grano di sale,
su ogni seme della mela. Lo spazio,
intorno ad ogni arancia è tondo,
infinito come la notte che ora
avvolge le case, riempie le deserte
strade, si allunga sul fiume e segue
nella corsa il treno.
E bene in alto cantano le stelle,
e sono canzoni d’esultanza. Ricordi?
Le belle giornate di sole, quando
d’inverno l’aria è trasparente,
il brivido del mare sul finire del giorno
quando all’improvviso cambia il vento,
gli occhi verdi del gatto, i colori
delle foglie nella vallata, durante
la stagione dell’autunno, il fiume,
i pesci che saltano risalendo la corrente,
la nascita degli alberi, sorella morte.
Soda è la notte, il regno dell’oscuro.
Quando sarò morto, rompetemi l’osso
della gamba, e presto prima che marcisca
leggete nel midollo il nome mio
che non conosco. Gridate poi
questo nome al vento, che lo raccolga
la notte e lo avvolga nel suo manto
oscuro, e lo conservi nel cavo
più sicuro del suo corpo, dove un tempo
io nacqui. Abbia pietà la notte
del mio nome, e lo conservi fino
al tempo già segnato, quando ancora
una volta dalla voce di colui
che ama, e che non mi è nemico,
sarò chiamato. Sarà ancora notte?
Ma non sarà più oscura!
11 marzo 1982
Carlo Striano
La poesia è ripresa dal libro Ossa inaridite, Edizioni ETS. Tutti i diritti riservati.