OH TU CHE FIERA TI ERGEVI TRA I MONTI
Oh tu che fiera ti ergevi tra i monti,
al tuo mistero di dolore
Stefano aquilano mi conduce.
Non servono parole tra le strade i vicoli
fino agli sbarramenti che impediscono
di avventurarsi nella zona rossa.
Non parole tra le rovine
con appesi ancora i volti i nomi
di chi la notte della grande scossa
se ne è andato e più non ritorna.
Non servono parole
tra le case dalle crepe ingabbiate
trafitte da grossi chiodi come in croce
i portoni sbarrati gli occhi vuoti
di finestre a cui più non ci si affaccia
e dalle due o tre botteghe aperte
gli occhi miti e fieri e rassegnati
di chi a stento, ostinatamente
riprende i suoi commerci, la sua vita,
e si appoggia paziente alla vetrina
e saluta con un cenno del capo
ad uno ad uno i radi passanti.
Stefano aquilano mi introduce
a quella che era la sua casa
al nove di piazza Chiarino,
casa che attende chi la butti giù
come si abbatte un cavallo azzoppato.
Oltre gli sbarramenti oltre il buio
dell'androne delle prime scale,
le mani attente a poggiarsi a destra a manca,
non ai neri squarci nei muri non ai ferri
che a malapena a forza li sostengono,
su su fino al secondo piano
fino alle poche sventrate stanze
in cui si era svolta la sua vita
e quella di mamma Giuseppina
fino alla notte della grande scossa.
Ora Stefano parla a bassa voce.
«Questo era il bagno, questo era il salone.
proprio a quel muro c'era il gran divano
su cui, fosse stato per me,
avrei certo dormito quella notte.
Sopra ci cascò mezzo soffitto
ma io non ero lì.
Chissà perché, l'avevo accontentata
quella sera mamma che insisteva
"Stanotte figlio ti voglio accanto a me,
casomai venisse il terremoto."
Erano mesi che la terra tremava,
ma solo un po', senza far del male.
"L'energia che scuote la città
si va scaricando, si disperde,
stai tranquilla mamma, rassicurati."
Così le dicevo ripetendo
quello che ci era stato detto,
ma quella sera lei s'era impuntata,
anzi, si stese accanto a me
senza spogliarsi, con la borsa pronta
a fianco alle sue scarpe,
accosto al grande letto
che per trentaquattr'anni
aveva condiviso con mio padre.
Eran passate da poco le tre e mezzo
quando un grido e il tocco di una mano
mi tolsero dal letto prima ancora
che spalancassi gli occhi nel buio.
"Figlio, il terremoto! Vieni via."
Il letto sobbalzava mi sfiorò
giù dal muro il quadro di Maria.
Mentre tutto intorno cadeva
lei mi spinse mi tirò con forza
sotto il tavolo della cucina.
Ricordo ancora il suo gridare a Dio,
ho negli orecchi il muggire della terra
cupo e possente come di tamburi,
il pavimento sotto i nostri piedi
sgroppare come toro infuriato
fin quasi a frantumarsi ad inghiottirci
finché improvvisa la furia si acquetò
e rimanemmo nel buio, nel silenzio
a sfiorarci, sorpresi d'esser vivi.»
Riprendiamo muti il nostro giro.
Qua e là ancora tra gli intonaci
una porta in terra, un vecchio frigo,
un tavolo con sopra una sedia,
un rubinetto, un lavandino, un water,
un rosario attaccato a un chiodo
- «Quello sai lo ha fatto il mio papà» -
e a una finestra, a guardare la città,
santa Rita in decalcomania,
la santa del coraggio e della pace.
Oh tu che fiera ti ergevi tra i monti,
da quel vetro adesso anch'io ti vedo.
Stefano mi mostra la sua chiesa,
santa Maria Paganica, schiantata
dalla possente mano dell'Altissimo.
«Sulla via che vi giunge e scende al Corso
prima c'era - mi dice - un tappezziere,
un tipografo, un bar, un ciabattino».
Che altro? «Altro non ricordo».
Di via Garibaldi rammemora il forno
e poi gli alimentari, il tabaccaio,
il sarto, l'enoteca, lo scarparo.
Riapriranno? «Chissà» lui mi risponde
e intanto scuote il capo, poi mi addita
la torre di Palazzo quasi intatta.
«Ma l'orologio - sussurra - è fermo ancora
alle tre e trentadue di quella notte.
Oltre la torre scorgi quel che resta
della chiesa delle Anime Sante.
La cupola è in pezzi, era un prodigio.
L'aveva innalzata il Valadier.»
Poi tace si volta ritorna
da solo alle sue stanze.
Oh tu che fiera ti ergevi tra i monti,
resto a quel vetro con te e col tuo mistero.
Vedo i tetti malconci e sopra i tetti
volteggiare rapaci in lento giro.
Vedo alti tra le rovine
gli scheletri operosi delle gru
intente a demolire e a ricostruire.
Vedo dai tetti protendersi al cielo
le filiformi braccia delle antenne
a captare segnali dall'etere
lasciati a spegnersi nelle case vuote.
Oh tu che fiera ti ergevi tra i monti,
te vedo straziata, morente,
da mille giorni in muta agonia.
Il tuo cuore infartuato ha tenui battiti
e solo a notte sussulta si accende
percorso dal sangue ribollente
dei più giovani tra i sopravvissuti
a stanare negli atri nei ventricoli
quel poco di vita che ti resta.
Ti vedo e ti domando se tu sai
se è sopra di te che si è posato
l'acuto sguardo del profeta Abdia.
«A te che dimori sulle alture
e dici in cuor tuo: "Chi potrà mai
gettarmi in terra?" così dice il Signore:
"Anche se tu come l'aquila
ponessi in alto il tuo nido,
anche se lo collocassi fra le stelle,
di lassù ti farò precipitare".»
Oh tu che fiera ti ergevi tra i monti,
tu taci, tu non vuoi non sai rispondermi.
Ascolta, ora parla Geremia:
«Ti ha portato all'errore l'arroganza,
è stata la superbia del tuo cuore.
Anche se tu come l'aquila
ponessi in alto il tuo nido,
di lassù ti farò precipitare.»
Ma no, non è per te la profezia.
Non è questa la Parola che fu data
alla tua gente in quella domenica
cui seguì la notte della scossa.
Erano le Palme, ti ricordi?
«Viene mite il tuo re - ricordi? mite -
è seduto su un'asina e la folla
gli grida "Benedetto!" e tra gli osanna
gli stende mantelli sulla via
e rami di palma e fronde di olivo.»
Molte di quelle fronde benedette
si sparsero poi di casa in casa,
molte di quelle fronde ancora giacciono
rinsecchite in mezzo alle macerie.
Quel giorno per te fu proclamata
una Parola ancora da Isaia:
«Io non ho opposto resistenza,
ho offerto il dorso ai flagellatori,
le guance a chi mi strappava la barba,
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.»
Certo non da te quei flagelli,
non da te gli insulti gli sputi,
da chiunque altro sì, ma non da te.
Ultima Parola di quel giorno
la passione e morte di Gesù.
»Che volete dunque che io faccia
di quello che chiamate il vostro re?»
E la folla rispose: «Crocifiggilo!».
Non la tua gente, no. Fu un'altra folla.
Eppure sta scritto che nell'ora
della morte in croce di quell'uomo
- chissà che non fossero per lui
le tre e trentadue del pomeriggio -
il velo del tempio si squarciò,
tremò la terra, le rocce si spezzarono.
Non così per te. Non fu di giorno
per te l'ora della grande scossa.
Non folle nelle strade negli uffici,
non panico di bimbi nelle scuole,
non morti a migliaia sotto il sole.
In quell'ora su te c'era la luna,
una rotonda luna,
a portare una pietosa luce
sopra il tuo mistero di dolore.
Non di giorno. Di questo la tua gente
rabbrividisce ancora e con tremore
c'è chi rende grazie all'Altissimo.
Oh tu che fiera ti ergevi tra i monti,
guarda fiorisce un'altra primavera
già si approssima il giorno delle Palme,
il tuo mistero di dolore torna a fondersi
col mistero di Pasqua di Gesù,
mistero di dolore e di amore,
mistero di morte
e vita nuova.
L'Aquila, 22-24 marzo 2012.
A Stefano Ratini
Pierluigi Varvesi