LA RESA DEI CONTI
Quando gli uscì di bocca quel «Perdona» soltanto allora, maledetto me, mi resi conto che era lui l'atteso. Per scongiurare che giungesse a termine l'assurdo progetto dell'odiato l'avrei schiodato io stesso dalla croce, ma non mi fu concesso e di lì a poco gli venne meno il cuore e se ne andò, se ne tornò di dove era venuto. L'inseguii nel viaggio di ritorno le mani protese come fossi ancora in tempo ad afferrarlo. Lo inseguii finché lasciò la tenebra, poi mi fermai davanti a quella porta che non posso, non voglio oltrepassare e fu lì che mi raggiunse il grido di lui che andando ancora supplicava «Perdona Padre, ché quelli non sanno quello che fanno, Padre mio, perdona!» Almeno quello no, che la pagassero. Quella gente me l'ero guadagnata e pure a caro prezzo, roba mia. Rivendicai il diritto di pretendere che si riunisse la Corte di Giustizia in cui mi spetta il ruolo dell'accusa. Dal mio scranno, spalle al presidente - ci mancherebbe lo guardassi in faccia - mi drizzai in piedi e presi la parola. Cominciai parlando del processo inscenato di notte dal Sinedrio. Processo ingiusto e ne portai le prove, false le accuse, falsi i testimoni. Ingiusti i colpi inferti dai flagelli, l'incoronazione da burletta gli sputi gli schiaffi gli sberleffi, estorta ingiustamente la condanna, ingiusto il supplizio della croce. Conclusi in crescendo la mia arringa con tre argomentazioni inconfutabili: da scartare l'inconsapevolezza data l'evidente malafede, quanto mai grave la somma dei delitti visto che l'ucciso è l'unigenito, comunque imperdonabili i peccati in assenza di un qualche pentimento. Mi rimisi a sedere soddisfatto e lasciai che parlasse la difesa. Visto che la richiesta di perdono era venuta proprio dalla vittima, fu il figlio dell'odiato a alzarsi in piedi, ma non gli uscì neanche una parola. Diresse lo sguardo giù alla terra, tutta ricoperta di caligine tranne il Gòlgota, di dove risplendeva il suo corpo ancora appeso al legno. Poi si voltò a suo padre, gli sorrise, chinò la testa come a ringraziare e niente più. Tornò a sedersi muto. La sentenza non si fece attendere e fu totalmente a mio favore. Gli imputati erano colpevoli, le colpe imperdonabili, la pena per tutti era la morte, una morte infamante e dolorosa. Poi il presidente ci invitò a tornare a portare lo sguardo giù alla terra, al Gòlgota e a quel corpo sulla croce.  «Come vedete - disse - la condanna è già stata eseguita. Su mio Figlio. Mi ha chiesto di scontarla lui per tutti. Ne ha il potere e a lui non nego nulla. Giustizia è fatta. Di queste imputazioni non chiederò più conto ad alcun uomo.» La seduta fu sciolta ed io rimasi con la mia rabbia, solo.   Pierluigi Varvesi
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