L’IMPRECAZIONE
I
Tu mi hai fatto stella del mattino,
il più simile a te per lume e scienza,
il più vicino fra chi ti è più vicino,
tra i serafini il più bello, il più possente,
l’eccelso portatore della luce.
Solo di fronte a te si dipartivano
le ali dal lucore del mio viso
che tu solo potevi sostenere.
Tu, El, ed Io, Helel, di fronte a te,
capolavoro di ogni tua creazione.
Cosa volevi, che facessi coro
con gli altri che non fanno che cianciare
santo santo santo all’infinito?
A che allora tanta perfezione?
A che l’acume dell’intelligenza,
a che l’ardore, a che la fantasia,
a che sei ali, se non per volar via
a sondare oltre i confini del tuo spazio
- lì dove la tua luce non arriva,
lì dove non hai mai steso il tuo dito -
se vi fosse altro spazio inesplorato
dove mettere a frutto i miei talenti
liberamente, in piena autonomia?
L’hai chiamata rivolta la mia crescita
e hai punito una colpa che fu tua.
Fosti tu a voler portare al limite
l’esaltazione di ogni tua potenza
quando hai fatto di me quello che ero.
A causa tua ho fatto quel che ho fatto:
mi sono inoltrato nella tenebra,
l’ho impastata insieme alla tua luce
e tohû e bohû è quel che ne è venuto,
il disordine vuoto, l’entropia.
Non è così? E allora perché mai,
quando ti sei rimesso all’opera
e hai separato la luce dalla tenebra
- ma non per sempre, Io non mi do per vinto -
facesti bene ogni cosa, non lo nego,
ma non quelli cui era destinata
codesta tua creazione,
Adamo ed Eva e tutta la progenie?
Se fu cosa buona avermi fatto
colmo com’ero d’ogni perfezione,
perché non altrettanto con gli umani,
razza meschina e dalla vista corta,
strano miscuglio di spirito e materia,
tanto stolti da essersi inventati
che li hai fatti a tua immagine, oh gran dio?
Forse pensavi che quella gentarella
stretta dal bisogno o dal timore
non ti si sarebbe ribellata?
Pensavi non sarebbero finiti
anche loro con me in tohû e bohû
a maledirti in ogni tua creazione?
Altro che santo santo santo santo.
II
Così ho imprecato dai giorni di quel fiat
per secoli e millenni fino ad oggi
quando fra l’altro mi è stato riportato
di Gabriele apparso a una ragazza
di un piccolo paese di straccioni
e della nube che la aveva avvolta
mentre quello ancora le parlava.
Abbastanza per mettermi in sospetto
e indurmi ad andare di persona.
Ora sono nella sua casupola
ricavata in parte nella roccia
e ascolto inquieto il suo tentatore
dirmi tutto di lei da quando è nata,
descriverla come una fra le tante
per senno e per forza di carattere;
senonché non ha di che accusarla
perché mai gli è riuscito di sedurla.
Prima di venire allontanato
di Gabriele ha colto solamente
un “Rallegrati” quanto mai inconsueto
per una ragazzetta come tante.
Sempre più inquieto mi volgo su di lei,
la osservo bene accovacciata in terra,
tremante ancora, con le mani giunte.
Provo ad insinuarmi e non riesco
ché il suo profumo intenso mi stordisce.
Lo riconosco: fiori di campo e incenso.
Accostandomi a te ne ero inebriato
quando ancora il mio nome era Lucifero.
Ben nascosta in questo luogo anonimo
sconosciuto persino alle Scritture
c’è forse una creatura in cui hai esaltato
di nuovo appieno ogni tua potenza?
E non se ne compiace fino a perdersi?
Chissà perché si affaccia alla mia mente
dalle Scritture quel tuo Zaccaria,
il suo “Rallegrati, figlia di Sion,
perché Io vengo ad abitare in mezzo a te”.
Torno a inabissarmi nell’angoscia
e a maledirti con nuove imprecazioni.
Pierluigi Varvesi
Lavinio, 1-4 settembre 2013