IL NOME
Quindici anni e quella maledetta
non mi era mai riuscito di adescarla
ed ecco, mi pensai, quel gran molliccio,
quel mezzatacca lecchino di Gabriele,
forte della forza dell’odiato
le parla e mi fornisce l’esca adatta.
Guardala ad occhi chiusi che rimugina
quel po’ po’ di miele avvelenato
che le è stato versato nelle orecchie:
“Sarà chiamato figlio dell’Altissimo.”
“Avrà il trono di Davide suo padre.”
“Sarà grande, il suo regno senza fine.”
Certo, come no. Me la godevo
pensando alle promesse fatte a Davide.
Quel blabla tipo: “Siedi alla mia destra.”
“Non lascerai che scenda nella fossa.”
E invece tutti sanno come è andata:
è ancora lì, a marcire sotto terra.
Quando vidi che non faceva caso
al nome da affibbiare a questo figlio,
un nome che le era stato imposto
- mai che l’odiato dica: fa un po’ tu,
di te mi fido, fa di testa tua -
un nome comunissimo e diverso
da quello preannunciato a chiare lettere
per l’atteso, il figlio della vergine,
quello che esultò fu il sottoscritto.
La tapina ci casca, gongolai.
Guardala lì. Davvero si è convinta
che dal suo prezioso ventre - verginale
per poco tempo ancora, sembrerebbe -
dal suo ventre acerbo e schifiltoso
verrà fuori l’atteso, il re messia.
Partorirà un profeta, mi dicevo.
Non sarà certo il primo e neanche l’ultimo
a sgolarsi per niente e poi a crepare
tolto di mezzo da quelli di buon senso
con sollievo di tutti, come sempre.
Quanto alla madre beh, di bene in meglio.
Se pure non riuscissi a farla mia,
mi voglio abbeverare a ogni sua lacrima
sparsa per niente, per uno come tanti.
Questo mi dicevo anche se il gioco
era ben lungi dall’essere concluso.
La tapina, come prevedevo,
si era affrettata a prostrarsi e ad assentire
ed ora non c’era che aspettare
l’approssimarsi del giorno inevitabile
in cui - visto che lei restava muta -
sarebbe stato il ventre a dar nell’occhio
di quello sprovveduto dello sposo.
Venne quel giorno e vennero le lacrime,
lui sul sacco a battersi la faccia
e lei nella sua stanza ginocchioni,
muta come agnella nella tosa.
In lui - ricordo bene - mi insinuai
con il precetto adatto alla bisogna:
si è lasciata sedurre, va estirpata.
Che ci voleva di fronte all’evidenza
a chiamar gente e prendere a sassate
quella sgualdrina e il frutto della colpa?
Già, se avesse ascoltato e messo in pratica
così come prescrive la sua legge,
il pupo avrebbe, ancor prima di nascere,
fatto la fine propria dei profeti.
Niente, esitava: «Ascoltiamola, chissà
che possa discolparsi in qualche modo.»
La chiamò, finalmente lei aprì bocca
e per dire cosa? «Sono pura.»
Pura come un giglio, figuratevi.
Il beota ancora domandava:
«Ma allora quel che è in te da dove viene?».
Per tutta risposta abbassò gli occhi,
roba che a ripensarci ancora rido.
Dopo di che Io tutto mi aspettavo
da quell’uomo così ligio e pio,
fuorché il progetto di eludere la legge,
scacciarla e farle grazia della vita.
Già me la vedevo a testa bassa
ritornare dai suoi col ventre gonfio
e rifiutata finire chissà dove,
quando lui che fa? Dà retta a un sogno.
Quel vile guastafeste di Gabriele
lo tranquillizza spiegandogli ogni cosa.
Poi, servile com’è, ripete l’ordine
sul nome da dare al nascituro,
ben diverso, lo dice chiaramente,
dal nome del figlio della vergine
indicato nella profezia
che gli ripete parola per parola.
Al risveglio quel becco consenziente
pensate voi che stette a interrogarsi
su nomi, citazioni e re messia?
Neanche un po’: lui corse a dire a quella
che era ben contento di tenersela
e di far finta che il figlio fosse suo.
Sta’ pure allegro - mi dissi - finché dura,
so ben Io a cosa andate incontro.
Quanto al nascituro avrei pensato
a seguirlo da presso e non a caso.
Non ignoravo che in quel libro stesso
in cui vien fatto il nome dell’atteso
si vaneggia di un giusto maltrattato
strumento del progetto del nemico.
Se avessi pensato che era lui
mi sarei poi ben guardato dal tramare
perché finisse a quel modo, appeso al legno
e sotto, con il ventre lacerato,
- il suo prezioso ventre verginale -
quella povera sciocca di sua madre.
D’altronde il figlio mai, finché è vissuto,
mai si è fatto chiamare con quel nome.
C’è chi afferma sì che sia tornato
vivo dal sepolcro - da non credere -
per pochi giorni e poi, prima di andarsene
finalmente e per sempre all’altro mondo,
abbia parlato di sé come di quello,
come a rivelare che quel nome,
proprio quell’Emmanuele-dio-con-loro,
sarebbe il nome nascosto, il nome nuovo
con cui chiamarlo giorno dopo giorno
fino alla fine del mondo. Da non credere.
Pierluigi Varvesi