IL PREZZO
Quella sgualdrina me l'ero procurata per quattro soldi pochi giorni prima dalla madama di un piccolo bordello con cui faccio da sempre buoni affari. Non così stavolta, mi pensavo, ma - sapete - a volte nel commercio pur di tenersi un cliente, un buon cliente, tocca dargli una mano se richiesti, come quel giorno, a costo di rimetterci. Non che fosse brutta la ragazza, di corpo era ben fatta e quei bei segni lasciati dalla brace o dalla frusta, uno come me che se ne intende sa che molti li trovano eccitanti, ma ridotta com'era - che volete - con quel grosso tumore in piena faccia disperavo persino fosse buona da mettere in istrada a mendicare. Ecco perché il giorno della fiera l'avevo incatenata chiappe all'aria col viso ben nascosto tra le mani accanto a uno scudiscio e alla tariffa se qualcuno così, tanto per ridere, ci si fosse voluto divertire in cambio di due spiccioli e aiutarmi a rientrare almeno nella spesa. Il resto della merce era sul palco in bella mostra, col prezzo appeso al collo: maschi e femmine di buona qualità, un paio poi da farci anche un bel gruzzolo solo a trovare il compratore giusto o magari, dio voglia, un amatore. Niente di peggio in giorno di mercato di nuvoloni bassi e vento a raffiche così gelato che a tenerli nudi c'era pure il rischio si guastassero. In capo a un'ora dovetti rivestirli tranne la sgualdrina, è naturale. Mezza mattina e solo due clienti, svogliati, frettolosi e mani in tasca. «Son già domati, sani, carne soda. Senta che roba. Avanti, fa vedere! Questa è un po' cara: dodici anni e vergine. Se le interessa può verificare.» Non c'era stato verso di concludere neanche ribassando qualche prezzo. Fino ad allora il solo ricavato erano le monete che più d'uno mi aveva lasciato per scaldarsi arrossando le chiappe alla sgualdrina. Avevo appena afferrato lo staffile con l'idea di imitarli quando a un tratto quel culo insanguinato fu colpito da una luce violenta come un faro. Alzai lo sguardo e vidi tra le nubi immote e nere - era calato il vento - aprirsi un varco il cielo terso e il sole. Protessi gli occhi svelto con la mano ma riuscì lo stesso ad abbagliarmi e così fui colto di sorpresa. «Qual'è il suo prezzo?» Mi fece sobbalzare una voce profonda e sommessa ma da dove? Mi voltai alla merce quel sole maledetto nelle palpebre finché tornai a vedere ma non c'era. Se ne stava fermo accanto a me dall'altro lato, volto alla sgualdrina, con il cappuccio del mantello alzato. «Vede, è tutto scritto nel cartello: una nerbata un soldo, non è caro. Con quel che costa la vita al giorno d'oggi che ci si può comprare con un soldo?» e gli porsi la frusta sorridendo. Tornò gelido il vento a fischiarmi diritto nelle orecchie, e intanto quello non si decideva a prendere la frusta ed a pagarmi. «Due passeri.» mi disse e mi fissò. Quella voce, lo sguardo, la statura, pensai subito: questo già l'ho visto. «Passeri non ne vendo signor mio, ma forse per il vento ho inteso male? Passere sì - e stesi l'altra mano a mostrare la merce lì sul palco - due passerine giovani e a buon prezzo e un'altra poi che è per intenditori. Se volesse…» Non mi lasciò finire. «Con un soldo si comprano due passeri eppure non uno cade in terra senza che mio padre lo permetta. Qual'è il suo prezzo? Val più di molti passeri.» E parlando indicava la sgualdrina. In un istante tutto mi fu chiaro. Maledetto lui e il re suo padre! Un mantello, un cappuccio ed una barba e si illudeva non lo riconoscessi. Il mio nemico, pensai, tende tranelli: spera di indurmi a piazzargli a caro prezzo merce avariata per mettermi nei guai. «Mi dispiace, non vendo questa roba. Ne andrebbe, sa, del nome della ditta. Più di molti passeri? Signore, lei ha messo gli occhi su un bel fondo schiena, ma il resto è da buttare. Non ci crede? Non le piacerà, ma se ci tiene ora prendo le chiavi e gliela giro.»   Mosse appena il capo come a dire che era quel che voleva. Mi chinai per scioglierla dai ceppi e quella stupida mentre armeggiavo col mazzo delle chiavi prese a tremare a gemere a ritrarsi. «Ferma, bestia!» Feci per frustarla perché si lasciasse rivoltare e tirar via le mani dalla faccia. «Fermo tu.» Di nuovo quella voce mi colse di sorpresa. Figuratevi se gli avrei permesso di intromettersi, ma - non so come - fu il braccio fu la mano che stava per calare lo staffile a bloccarsi sopra la mia spalla mentre quello parlava alla sgualdrina. «Mostrati colomba, mia perfetta. Mostrami il tuo viso, non temere.» Vaneggiava, comunque lentamente quella si voltò, prima dischiuse una ad una le dita per guardarlo, poi scrollò le spalle, sospirò e si scoprì la faccia devastata. «Ecco signore, gliel'avevo detto. È proprio da buttare, non le pare? Venga che le mostro l'altra merce.» «Qual'è il suo prezzo?» Manteneva uno sguardo su di lei come d'uno che è pazzo d'amore. Non mi diedi la pena di aprir bocca, scrollai solo la testa a ribadire che quella lì non era merce in vendita e mi chinai per tornare a incatenarla. «Lasciala andare e in cambio prendi me.» Mi accertai di aver capito bene: che intendesse - beh, si fa per dire, che fosse fuor di senno era evidente - che intendesse davvero darsi a me, lui l'odiato figlio dell'odiato, perché ne disponessi a mio piacere. Non mi ha riconosciuto, mi pensai, a travestirmi son più bravo Io. Fui svelto a liberarla. Prima di porgermi i polsi per i ceppi si sfilò il mantello, lo voltò e lo fece indossare alla sgualdrina. L'altro lato era intessuto d'oro in preziosi broccati, risplendeva di riflessi accecanti sotto il sole. Le indicò la via del suo palazzo, le disse: «Va'!», la accarezzò sul viso, le sorrise e aggiunse: «Vengo presto». Non sapeva che fine lo aspettava. Lei corse via. Che strano, in quell'istante mi parve che la guancia deturpata fosse rosata e liscia come l'altra, ma certo mi ingannavo: avevo gli occhi abbagliati dall'oro del mantello.   Pierluigi Varvesi
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