Quando la sua padrona fa ritornoil pappagallo resta quieto e muto.Se lei lo chiama quello non si volta.Se dorme, le zampe strette al trespoloe il capo riposto sotto un'ala,non c'è rumore che riesca a scuoterlo,né lo disturba il ticchettio profondodell'orologio che gli scorre accanto.Quell'animale è sordo dalla nascita.Pochi l'han sentito parlare,ché la padrona lo tiene rinchiuso- ha spesse stecche d'osso la sua gabbia -nella stanza più interna della casae solo a pochi consente di accederviper ascoltarlo ripetere parolevive e fascinose per alcuni,per altri sgraziate e prive d'echi,ma per i più inquietanti e dolorose,parole che non vorresti riascoltare.C'è chi le riconosce: son paroleche il pappagallo imita con vocenon gracchiante come quella dei suoi simili,né roca come di sordo fra gli umani,ma piana, sottile e penetrantecome di bimbo che mormori all'orecchio,accostando la mano, i suoi segreti.Le parole che dice sono quelle che solo in sonno o nel dormiveglia a volte si sussurrano, parole tratte dallo scrigno arruginito degli aneliti da tempo rinnegati, delle speranze spente, dei rimpianti, delle domande per sempre accantonate. Se ti accosti l'animale le ripete, or l'una or l'altra, legate tra di loro da un filo che certo non sa tessere, né sa spiegare: è del tutto analfabeta. Per questo la padrona un po' scherzando chiama il pappagallo il suo poeta. Scandriglia, 25 maggio 2012 Pierluigi Varvesi