Ultima modifica: 23 marzo 2013
Le Stazioni sono state scritte da Carlo Striano in un periodo di tempo di circa un anno, fra il gennaio del 1987 e il  gennaio del 1988, fra Cavi di Lavagna, base per la missione di catechista in Liguria, e la nuova residenza di Colle Verde,  vicino a Roma: lo attestano le indicazioni di data e luogo che l'autore vi premette, preoccupato come sempre di legare le sue  composizioni a un "qui e ora" che ne definisca l'appartenenza spazio-temporale alla propria vita.   Ma il fatto piu' straordinario a cui ci si trova davanti, nella lettura delle Stazioni che via via Striano ha creato durante  quei dodici mesi, è la loro natura assoluta di monolito. Anzi, straordinario è che la poesia nasca intorno a una persona che  "è" un fatto, alla persona che è - sola - la roccia ai piedi della quale si arresta la contemplazione dell'autore. Veramente fuori  dagli schemi ordinari, insomma, è questa concentrazione unica delle immagini sulla figura del Servo di Jahvè, da cui  scaturisce ognuna delle quattordici composizioni: perché, data per scontata l'inadeguatezza di ogni discorso umano (e  persino dell' "alta fantasia" dantesca) sulla Parola fatta carne, la poesia sul Cristo arretra normalmente a livello di preghiera,  a volte sublime preghiera, che lo rende oggetto, lo pone altro da sé per poterglisi rivolgere come invocazione, compianto…   Qui invece Cristo è il soggetto assoluto di una micro-storia (quella della sua passione e morte) dalla quale si irradia, indietro  fino al primo uomo e avanti fino alla fine dei tempi, tutta la storia.  La poesia di Carlo Striano è contemplazione di questo  mistero.    In ognuna delle stazioni c'è come un punto fermo, che definisce il momento del patire attraverso una terza persona  che non postula osservatori, o una seconda persona che implica un dialogo.   Sicuramente un'analisi puntuale confermerebbe in maniera più dettagliata ciò che tuttavia possiamo già ricavare da qualche  esempio significativo, che qui si propone all'attenzione del lettore:  "Egli è gia' ferito". ("il cane", "il verme", per il sacerdote. "Egli", all'ultimo verso della prima sezione, per indicare il  cardine su cui ruota tutta la sacra rappresentazione - si potra' definirla così?). "Egli / Figlio di Dio si è dichiarato": "Questo  verme", "questo cane" nelle parole del gran sacerdote, è invero "il Logos eterno". E' Lui il centro della scena, intorno un  vorticare di parole gesti momenti di un tempo che rotola inesorabile come una macina per schiacciare "Colui al quale i cieli  vanno stretti", il Signore del tempo.  "Egli è l'uomo del dolore". E poi, con una sorta di inaspettato primo piano, ingrandendo un dettaglio: "ma il lievito dei  farisei / non aveva mangiato. Mai / mai, mai": un'affermazione che non potrebbe mai diventare "rivendicazione" della  propria giustizia sulle labbra del Figlio di Dio, ma suona come assicurazione al nostro bisogno di essere confermati. E  ancora, "il testo non lo dice, / piange": dove l'avvertimento non suona come autogiustificazione, perché l'intento di costruire  un ennesimo vangelo apocrifo è sempre escluso dalla fedeltà assoluta con cui, invece, il testo poetico segue, reinventandolo,   il percorso della narrazione evangelica.   Altre immagini di "contorno" non sono mai abbellimento retorico: cfr. la stupenda conclusione di questa "lassa", che  trae, prima, accenti commossi dalle citazioni indirette di testi scritturali e sapienziali, poi uno stupefatto senso di  sospensione temporale dal riferimento diretto a un'ode di Salomone: "La colomba volava, con ali aperte / al vento, sul suo  capo": come non cogliere qui il richiamo, sia pure sottinteso, ma non per questo meno forte, a riconoscere in questo istante  uno dei nodi temporali che generano la storia? Lo spirito che aleggiava sulle acque appena create è lo stesso che ad "ali  aperte" si fa sostenere dal vento della storia, nella quale Cristo entra con duplice accettazione della morte attraverso la quale  passa la volontà del Padre, prima entrando nell'acqua del Giordano, e poi caricandosi la croce sulle spalle. La presenza della  colomba non è solo un suggello che indica il compimento della volontà divina, ma è l'assistenza infinitamente  misericordiosa e partecipe dell'amore del Padre.    "E cade". La composizione si regge sul filo sintattico della congiunzione "e", e sull'effetto-moviola generato dalla  giustapposizione delle immagini con la tecnica della paratassi. Ancora tutto avviene sulla terra, ma in presenza del cielo: da  una parte, quaggiù, "cade", "s'abbatte l'albero", gli angeli urlano silenziosi, pervasi di meraviglia (credo sempre quaggiù:  infatti, come nella scena natalizia dell'apparizione ai pastori, essi sono presenti ma invisibili, lo suggerisce il loro urlo  silenzioso, la loro meraviglia che nasce sulla terra e si riverbera e si rifrange su per "i novantanove cori"). La folla è gelata di  orrore, ma è sempre "Lui" in primo piano, con una serie di fotogrammi, o lacerti di suono, che ci riportano al suo patire,  vero soggetto della narrazione: "L'ansimare / rotto. L'affannoso rialzarsi. Le mani / legate al legno. Il sangue / cola dal  naso insieme / al muco. Maschera di polvere / coagulata. Il sudore." E, dall'altra parte dello spazio, con un balzo potente,  forse (non impossibile da dimostrare) di leopardiana memoria, "Andromeda / lontana guarda immota".   Nell'impotenza della stella, però, è racchiusa la valenza terrestre, per così dire, anche del cielo, di questo cielo  materiale al quale appartiene l'universo, che condivide con l'uomo la creaturalità e il soffrire. Il cielo "divino" è annunciato  dalla evocazione della "Stella del mattino": ma non è ancora l'ora della sua aurora, non è ancora tempo di resurrezione, ma  di morte e di tramonto. E su questo paradosso, "Uomo-Dio ansimante", la poesia si chiude.    In forma dialogata. L'Io è Cristo stesso, confermando la sua natura di soggetto poetico con prepotenza espressiva,  superando le difficolta' connesse con il problema formale - come parla Gesu' del proprio morire? - attraverso una lingua  tutta intessuta, come una veste preziosa, di riferimenti biblici. La provocazione teologica ed esistenziale, che è sempre  presente, non esaurendosi nessuna delle stazioni in un fatto squisitamente figurativo, è lasciata alla conclusione: "Oggi tu  partorisci / altri figli". E, infine, la colomba - l'amore del Padre - è diventata aquila - la sua giustizia che si compie? (cfr.  Dante): immobile, ferma anch'essa come roccia, incrollabile: questa volta le ali aperte sono le braccia della croce (quale  ricchezza di possibili sviluppi: amore e giustizia sono egualmente certi, la giustizia che si compie è anch'essa amorosa, la  croce è trasfigurazione dell'uno e dell'altra…).    La quinta stazione rappresenta una eccezione alla struttura generale dell'opera. Il protagonista è l'autore, nei panni di  un Cireneo volutamente tenuto su un registro basso. La commistione dei toni (alto e basso)  potrebbe forse disturbare il  lettore, così come l'intrusione della lingua francese per non usare la parola italiana corrispondente a "je scie".   Ma io  credo che l'autore non abbia resistito alla tentazione di dare un colpo di accetta - guidato dall'incrollabile fede vichiana che  sempre lo ha caratterizzato - al Cartesio che egli disprezzava (responsabile di avere tracciato la via, con il suo "cogito, ergo  sum", che avrebbe allontanato il pensiero occidentale dall'alveo cristiano: si veda anche, nell'ultima stazione, "la metafisica  azzoppata degli assi cartesiani"). E trovo invece straordinario l'accostamento fra la corporeità di questo Carlo-Cireneo,  dolente per concretissime infermità ("Dell'artrosi nessuno ha mai cantato"; ma ci sono anche il diabete, i funghi della pelle,  le emorroidi…) e i "mille soli" che lo accecano quando si fa carico della croce di Cristo.    Essendo qui in risalto la figura della Madre, appare felicissimo il movimento finale che riporta al Figlio (vero e unico  soggetto, si diceva), riprendendo il tema della caduta. La Veronica è tutte le madri straziate, e quel Figlio tutti i figli partoriti  nel dolore. Con una bellissima intuizione poetica - e con sapiente intenzione esegetica - una "Acuta nostalgia / del giardino"  riaccosta prodigiosamente i lembi temporali, perché là, in quel giardino, la morte ha fatto il suo ingresso nel mondo, con "il  frutto / dell'albero". Anche nella potentissima invocazione che segue tutto sembra perfettamente congegnato. E' un bellissimo esempio di  fusione dei piani teologico, biblico, esistenziale, figurativo. Prosegue intanto l'iter del Figlio/protagonista, la sua via crucis, il  suo combattimento (agonia) di Dio eterno che ha accettato di essere fino in fondo uomo fatto di tempo e di terra: "Egli si  porta sulle spalle il palo / da gettare nelle ruote del tempo", "Lotta con il tempo e non sa / come salvarsi. Si sente addosso /  le sue infinite morti". "Diventa acqua di mare / e atomi di luce dispersa". "Aderisce alla Terra"...    VIII Una stazione di forte ispirazione polemica, in un tono che sembra adeguarsi più all'autore, qui sovrapposto all'io  recitante del Cristo, che non al Cristo stesso. Un tono rabbioso, come a rivendicare una concezione di Dio "migliore,, e piu'  esatta di quella che hanno le donne di Gerusalemme, che qui diventano ingenerosamente le pie donne (e uomini) borghesi  che scambiano Dio con una assicurazione sulla vita, Gesù Cristo con un guaritore sempre a portata di mano. E non mancano  immagini di grande forza, come gli urli di paura al tempo della mietitura della morte...    Variazioni di notevole efficacia sul tema della caduta, che non è più riproposta con il ritornello precedente ("e cade"),  ma attraverso nuove immagini del corpo sofferente, ingrandito nei suoi dettagli fisiologici, con un senso di straziata e  accentuata umanità, contrapposto ancora a immagini di alta provenienza simbolica (nuovamente la colomba, la luna, la  rete, il legno verde), alternate a richiami scritturali precisi (il samaritano della parabola, i soldati, le altre comparse). E su  tutto si stende, come un mantello pietoso, l'amore di Gesù, di Dio, che "non fa differenze" tra buoni e cattivi…  La decima stazione riprende il tema potente del corpo, esaltato da quello della nudità, in uno sviluppo della  precedente. La conclusione porta altra acqua al mulino della vocazione speculativa dell'autore, forse con qualche eccesso  didascalico nel descrivere le articolazioni di quella corporeità, ma ancora una volta riuscendo a sottolineare la centralità di  Cristo nel tempo e nello spazio… con un suggestivo richiamo all'icona dell'Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci.    Oppone al razionale discettare della chiusa precedente una sorta di folgorazione lirica di tipo mistico. Di grande  bellezza, con una evidente ascendenza musicale (cfr. il finale), si propone come un corale di una passione di Bach (ad  esempio quella secondo Matteo, tanto amata dall'autore di questi versi) con variazioni sul tema del nome di Dio, racchiuso  nella affermazione "IO SONO" che coagula in sé il tempo e lo spazio.  Il momento supremo della morte di nostro Signore sottolineato da un "auffa di noia": con un tono da brillante  polemica giornalistica, volutamente scelto per demitizzare quello che è appunto il clou della "sacra rappresentazione", per  combattere qualunque rischio di sentimentalismo in nome di un realismo, di una concretezza che lasci libero sfogo allo  scandalo: non soltanto duemila anni fa Gesù è stato messo in croce, ma nei secoli dei secoli è stato sfigurato, ci si  appropriati di lui per farne una guida ideologica, un "bravo ragazzo sprovvisto di buon senso", e così via, sotto il segno del  "$erpente" XIII  Ancora il corpo, in una deposizione contemplata con amore. Cristo morto è definitivamente un "Tu" che ci si mostra  come "mistero di Dio stesso", interpellandoci con la forza incredibile del suo essere proiettato anche nel nostro futuro,  semenza benedetta", e contemporaneamente del suo essere il futuro gia' compiuto ("hic et nunc"). La croce vuota è  immagine di grande potenza, come se la sua nudità facesse qui da contraltare alla nudità del corpo contemplata  precedentemente.    XIV Conclusione aperta: "altra musica ci vuole adesso, / Giovanni Sebastiano", significa forse questo: come neppure la  musica di Bach, almeno quella scritta da J. S. in terra, è adeguata ad accompagnare l'incontro fra il primo Adamo e il nuovo  Adamo, così avviene anche per la poesia, per lo spartito delle parole. La poesia ha momenti di grande bellezza, nella sua  reinvenzione del "tuffo" prodigioso (secondo l'antica sequenza pasquale, si è compiuto  b) col quale Cristo discende agli  inferi, e grazie al quale il tempo si ricuce, anzi si rigenera: "Sprofondi, / o forse e' meglio dire, riemergi, vieni a galla / del  tempo, come il tuffatore che riemerge / dal fondo al dorso delle acque". Dove si mescolano la memoria personale dell'autore  (il suo passato marinaro) con la memoria dell'icona del tuffatore del grande affresco di Paestum, da lui tanto amata.   E in questa contaminazione, che è continua in tutta la sua poesia, consiste uno dei caratteri forti e riconoscibili dello  stile del poeta Carlo Striano, sempre attento più al messaggio che al "mezzo", ma assolutamente convinto che un messaggio  importante richiedesse all'autore un lavoro serio e paziente sulla parola: come nel caso di queste Stazioni.                                                               
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Le Stazioni e la centralità di Gesù Cristo nella storia Enrico Rovegno
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