Introduzione
MIKLÓS RADNÓTI: UN POETA CONTRO IL NULLA Pierluigi Varvesi
Ultima modifica: 13 aprile 2013
Parliamone
1936 - 1939: Funesti presagi Fu la moglie a suggerirgli il titolo del quinto libro: Cammina pure, condannato a morte  uscito nel ‘36, che gli valse il prestigioso premio Baumgarten. In questi versi torna  fortemente presente il presagio di una morte violenta; fra tuttti, quelli di Diario di guerra.  Con i soldi del premio il poeta poté permettersi di passare luglio e agosto del '37 a Parigi,  stavolta con la sua Fanni. Scopo del viaggio era di seguire un corso di perfezionamento in  francese, ma gli sposi non rimasero estranei al fermento sociale che si viveva in quei giorni,  né alle notizie che arrivavano a tratti dalla vicina Spagna sull’infuriare della guerra civile.  Parteciparono entrambi a una grande manifestazione antifascista, indetta in segno di  solidarietà per la distruzione di Guernica.  Il poeta visitò anche l’Expo in corso nella capitale  francese e si fermò a lungo davanti al grande murale intitolato a Guernica, che Picasso  aveva appena dipinto per decorare il padiglione della Spagna. Agli eccidi e alle distruzioni  della guerra spagnola è ispirata la poesia Nota in margine al profeta Habacuc. Non solo in  Spagna persero la vita in quegli anni giovani artisti.  Ai primi di dicembre di quello stesso  '37 Attila József, un altro grande poeta ungherese, si uccise sotto un treno. Nel maggio '38  (lo stesso anno della promulgazione in Italia della "Carta della Razza"), il parlamento di  Budapest approvò la prima legge antiebraica, che limitava al 20% del totale la  partecipazione complessiva degli ebrei alle attività culturali, economiche e professionali.  Svanì così definitivamente la speranza di ottenere una cattedra. La sua unica entrata stabile  rimase soltanto l'assegno mensile da parte dello zio-tutore.  In quello stesso anno uscì il suo sesto libro di versi, Strada ripida, di cui fa parte la  poesia Prima egloga, che apre un ciclo in cui l'atmosfera bucolica dei versi della gioventù è  pervasa dalla coscienza civile e dal sentimento della morte. La conterranea Anna Lesznai  scriverà sessant’anni dopo che con questi versi il poeta è riuscito a “elevare la natura al  livello dello spirito umano” . Nel marzo del '39 fu introdotto in Ungheria il "servizio di lavoro disarmato per la difesa  della patria"; tutti gli inaffidabili: ebrei, comunisti, zingari, sarebbero stati costretti al  lavoro forzato per le forze armate. Due mesi dopo, una seconda legge razziale ridusse dal 20  al 6% l’accesso allle professioni, e al 12% la possibilità di gestire imprese commerciali ed  industriali. Gli ebrei furono inoltre del tutto esclusi dai pubblici impieghi. Questa legge  impedì al poeta di farsi assumere come bibliotecario dalla fondazione Baumgarten, la stessa  che l'aveva premiato tre anni prima.   È del ‘39 la poesia Giovedì, un grido angosciato per il tragico destino dei poeti sotto la  persecuzione nazista.  1940 - 1943 La crisi esistenziale, il lavoro forzato Cominciò un periodo di lavoro intenso e di forte angoscia, probabilmente legata non solo  alla durezza dei tempi, ma anche alla tormentata stesura dello scritto autobiografico Il mese  dei gemelli, che avrebbe pubblicato nel ’40. Basta leggerne qualche pagina o solo dare  un’occhiata al tormentato manoscritto per rendersene conto.  Fu probabilmente in questo periodo che il poeta, che era sempre stato amante dello  sport, divenne un forte fumatore. Soltanto dopo la morte di lui, Fanni confessò che anche a  lei sarebbe piaciuto fumare, ma che in due non se lo potevano permettere.  È del '40 anche Versi scelti, un'antologia delle sue poesie già pubblicate alla quale unì  nove poesie inedite, scritte negli ultimi due anni. Sempre nel '40, ma sotto il nome di padre  Sík, uscì la riedizione in lingua moderna di un antico libretto di preghiere cattoliche; il  lavoro era stato compiuto da Radnóti su richiesta del suo vecchio professore e grande  amico, che forse gli voleva così fornire supporto spirituale in un momento difficile.  Gli ultimi tre mesi del '40 il poeta li trascorse sotto le armi, ma disarmato: essendo ebreo  dovette svolgere un lavoro coatto. L’essere almeno formalmente un militare gli avrebbe  almeno consentito di spedire e ricevere posta e di usufruire ogni tanto di una libera uscita.   La sua crisi esistenziale sfociò, poco dopo il ritorno a casa, in una relazione con un'amica  della moglie, la pittrice Judit Beck. Zsuzsanna Ozsvath ipotizza - nella sua biografia di  Radnóti In the Footsteps of Orpheus, 2001 -  che si sia trattato di una fuga in «un nuovo  mondo di miti e misteri nel quale Miklos poteva aver cercato rifugio per sfuggire alla  realtà». Il poeta non nascose nulla alla moglie che, pur soffrendone, seppe comprenderlo e  aspettare. Fra le poesie di quel periodo, Acquazzone e Terza Egloga sono sicuramente  ispirate a Judit. L'idillio con la pittrice si sarebbe comcluso nel giro di un anno, e grazie  all'amore e all'intelligenza di Fanni non avrebbe messo in serio pericolo il matrimonio. Ci  vollero tuttavia ancora parecchi mesi perché lei si convincesse che la storia fra il suo Mik e  Judit era veramente finita.  Quando alla fine del '40 morì il suocero, il poeta scrisse nel suo diario: «Fifi sta  piangendo. La accarezzo e me ne sto a guardarlo, appoggiato alla parete. “Sembra che  dorma!", dice mamma [la suocera], ma la sua immobilità e la fronte mostrano che non sta  dormendo. Sono questi i segni della morte? O una fredda, quasi calma eccitazione, e un  dolore che dalla coscienza trapela fino al cuore? Oh, quanto ho già scritto sulla morte...»  Nel marzo del ‘42 un nuovo decreto “sull'impiego degli ebrei per esigenze di guerra”  istituì i “battaglioni di lavoro”, composti in realtà da soldati-prigionieri, obbligati ai lavori  forzati. Mantenevano gli abiti civili ed erano costretti a portare al braccio la fascia gialla. Li  identificava come “militari” solo il berretto.   È dell'aprile la poesia Vola la primavera, che il poeta scrisse come preludio alle Egloghe  qui il risveglio della natura fa da contrasto al profondo sonno della libertà.  Radnóti venne richiamato nel luglio del '42, prima che con Fanni tornasse totalmente il  sereno. Stavolta il "servizio di lavoro" durò dieci mesi.   Il poeta era costretto a stare lontano da casa e si tormentava per la sua Fifi, che sapeva  ancora nell'inquietudine. È del novembre una sua lettera appassionata alla moglie; vi era  acclusa una poesia “di riparazione”: Esametri di fine ottobre. Fanni scrisse nel suo diario:  «Mik mi ha mandato una poesia. È bellissima. Finalmente è riuscito a farlo, e che poesia!».  Quando le fu chiesto se avesse avuto paura che la relazione con Judit potesse mandare a  monte il matrimonio, aveva risposto: «Tra noi due, ci sono le poesie!».   Il 16 marzo del '43 Radnóti era in libera uscita e stava leggendo un giornale alla fermata  del tram; non si accorse che gli si era messo vicino un ufficiale e trascurò di salutarlo.  Quello lo trascinò in una vicina caserma, lo malmenò, lo fece rapare a zero e, tra le risate  degli astanti, costrinse per un'ora lo "schifoso ebreo" a rotolarsi e strisciare nel fango del  cortile. Il poeta ne uscì talmente  prostrato che per un po’ smise persino di scrivere nel suo  diario, su cui non riportò, né allora né mai, neanche il minimo accenno a questa vicenda.   Già agli inizi di marzo un folto gruppo di intellettuali ungheresi, fra cui il suo vecchio  amico padre Sik, aveva fatto avere al ministro della difesa un appello in suo favore.  A fine  aprile Radnóti fu congedato e pochi giorni dopo coronò la conversione, maturata da molti  anni, con il battesimo celebrato nella cattedrale cattolica di santo Stefano da padre Sik. Il  motivo del prolungato rinvio fu da lui esposto in una lettera al suo ex professore Béla  Zolnai, in cui gli chiedeva di fargli da padrino: ora ben sapeva che la conversione non gli  avrebbe risparmiato le persecuzioni in quanto ebreo da parte del regime fascista di Miklós  Horthy, al potere dal '22. Per non mettere in imbarazzo lo zio, ebreo praticante, volle  rinunciare da allora al contributo mensile che gli veniva da lui fin dai tempi del matrimonio.  Nell'estate del '43 uscì un'antologia delle sue traduzioni poetiche, Sulle tracce di Orfeo  Radnóti è considerato  il più grande traduttore che l’Ungheria abbia mai avuto. Per dare  un’idea della passione che ci metteva,  basti guardare al tormentato manoscritto del ‘36, che  documenta il suo lavoro sulla poesia London di William Blake. In margine il nome Fifi,  elaborato più volte come a comporre un monogramma. Non è difficile immaginarlo  meditare tra un verso e l’altro e intanto giocare distrattamente col nome d’amore  della sua  donna, con cui era sposato da soli pochi mesi.  Marzo - settembre 1944: nelle mani dei nazisti Il 19 marzo del '44 i tedeschi occuparono Budapest, dando così forzatamente fine alla  neutralità dell'Ungheria. A differenza dei capi della comunità ebraica, che si illusero fino  alla fine che i russi sarebbero arrivati in tempo per salvarli, Radnóti capì subito come  sarebbe andata a finire. Il giorno dopo l’invasione mise al sicuro in una biblioteca i  manoscritti dei diari e delle poesie.  Nel giro di quattro giorni a capo del governo magiaro  venne imposto il filonazista Döme Sztójay, e si pose subito mano alla "soluzione finale del  problema ebraico".     Dopo essere andato il 4 aprile a trovare il suo amico e confessore padre Sik,  Radnóti si  rintanò in casa: un decreto di quei giorni obbligava gli ebrei a cucirsi la stella gialla sul  petto; lui preferì la clausura ad andarsene in giro così conciato, non solo per l'umiliazione,  ma soprattutto perché questo lo avrebbe identificato come ebreo, mentre il poeta si sentiva  e ci teneva ad essere considerato semplicemente e soltanto ungherese.   Sono del 30 aprile i versi di Né ricordo né magia, in cui un doloroso, lucido sguardo sulla  realtà, «senza più rabbia nel cuore», si accompagna al rinnovato anelito per la «lontana  luce di un futuro libero», che confluisce in questi versi profetici:  «il mondo si rinnova - e anche se a me è proibito  ai piedi dei nuovi muri risuonerà la mia parola».  Perché sfuggisse al destino che lo aspettava, gli furono offerti dei documenti falsi; la  famiglia della moglie avrebbe potuto trovargli un buon nascondiglio all'interno di un  convento. Padre Sik in quei giorni andò più volte a trovare a casa Miklós e Fanni e li  confessò. L’ultima volta fu il 4 maggio. Ormai la decisione era presa: non si sarebbe  sottratto al destino degli ebrei ungheresi. Il sacerdote si congedò con queste parole: «Il  sacrificio è necessario». Dopo quindici giorni arrivò la terza chiamata a prestare servizio nei battaglioni di lavoro;  già sapeva che non sarebbe stato come le altre volte: ora a comandare sarebbero stati i  tedeschi. Stava lavorando alla traduzione della Dodicesima notte di Shakespeare, che  avrebbe lasciato incompiuta. Fu in quelle ore che Radnóti scrisse, per l'ultima volta alla sua  scrivania, dei versi senza titolo che sono un lucido e dolente sguardo sul mondo impazzito:  sarà la moglie a chiamarli semplicemente Frammento. Il giorno dopo si congedò dalla sua  Fifi e partì. Come presagiva, non sarebbe tornato.   Fu prima inviato a un centro di smistamento non lontano da Budapest. Di lì scrisse a  Fanni ogni giorno. Da uno di quei biglietti: «Sai che sei tu a dare un senso alla mia vita.  Cercherò di restare in vita per te.»  Il 27 maggio il poeta fu messo su un carro bestiame insieme ai tremila compagni del suo  “battaglione”, in massima parte ebrei. Questa volta, invece del bracciale giallo, il poeta  indossava il bracciale bianco dei cristiani, ma ciò non gli avrebbe arrecato alcun vantaggio.   Il treno in quattro giorni lo portò in Serbia, nella zona mineraria di Bor, a una trentina di  chilometri dalla frontiera bulgara. Nei campi di detenzione di Bor vi erano già più di  settantamila deportati di oltre venti nazionalità; i lager erano in tutto sette, distribuiti lungo  trenta chilometri fra le città di Bor e Žagubica.   La supervisione dei lager era tedesca, ma in quelli a prevalenza ungherese i forzati erano  "gestiti" direttamente da un contingente militare magiaro. Nel lager principale, il Berlin, si  trovavano già tremila ungheresi, al 98% ebrei, deportati nell'anno precedente e impiegati  nelle miniere di rame a cielo aperto, tra le più grandi d'Europa. Qui comandava il tenente  colonnello Ede Maranyi, un filonazista che si comportò in modo ottusamente crudele, tanto  che i tedeschi dovettero intervenire in più di un'occasione, per evitare che eccessivi  maltrattamenti rendessero i prigionieri inabili al duro lavoro cui erano costretti.  I tentativi  di fuga e le infrazioni più gravi erano puniti appendendo per quattro ore al giorno i  prigionieri per le braccia, e rinchiudendoli per il resto del tempo in gelidi depositi  sotterranei, con la razione di cibo dimezzata.  Col trascorrere dei giorni i tentativi di fuga divennero più frequenti e la repressione  tedesca si fece ancora più dura: il 22 luglio del ‘44 Friedmann e Reisset, due evasi ripresi  furono fucilati davanti alla truppa* e ai prigionieri riuniti nel piazzale del lager Berlin.   Da allora, per rendere più difficili le fughe, ai forzati vennero sequestrate le scarpe,  sostituite con grossi zoccoli di legno.   Migliore era la situazione nel lager Heidenau, presso Zagubica, al quale fu assegnato  Radnóti con gran parte del suo battaglione. In questo campo si lavorava alla costruzione di  una ferrovia a scartamento ridotto, destinata al trasporto dei minerali dalle montagne  ai  porti fluviali lungo il Danubio. Il campo era comandato dal tenente Antal Száll, uomo  intelligente e dai modi umani, che fece di tutto per rendere per quanto possibile meno  difficile la vita nel lager, a tutto vantaggio della qualità del lavoro. Era concesso ai forzati di  riunirsi la sera, e si formò attorno al poeta il "Radnóti-kör", il "Circolo Radnóti", in cui si  faceva un po' di musica, si dibattevano tematiche culturali e esistenziali, si leggevano  poesie. Fra i partecipanti un medico*, uno psichiatra*, un musicista* con il suo violino, e  poi un pittore*, un disegnatore*, un avvocato*, un ingegnere*, un matematico*.   Dal lager Heidenau giunsero alla moglie a Budapest solo due cartoline postali: la prima  era datata 23 luglio, il giorno in cui ricorreva il nono anniversario di matrimonio.  Nella  seconda, spedita il 16 agosto, è scritto fra l'altro: «Grazie, mia cara, per i nove anni passati  insieme». Un grazie che sa di addio. Dopo di allora non gli fu possibile spedire altra posta, e  cominciarono per Fanni i lunghi giorni dell'ansia e dell'attesa.  Di notte, mentre gli altri dormivano, spossati da tredici ore di fatica e due di marcia per i  trasferimenti, il poeta scriveva nella penombra della baracca i suoi versi su un piccolo  taccuino. Sarà ricordato come Il taccuino di Bor. L’unica non datata è la Settima egloga  composta probabilmente nel luglio del ‘44: Le date poste in fondo alle altre poesie  scandiscono il tempo trascorso nel lager. 8 agosto: Radice; 17 agosto: À la recherche; 23  agosto: l'Ottava egloga, in cui sembra annunciato il compimento della misteriosa profezia  contenuta nella citazione premessa a Saluto pagano, il suo primo libro di poesie: «Tu  reviendras ici, un jour», il ritorno, e da cristiano,  alla casa del Padre:   «Finché arrivi il regno che ha promesso quel giovane discepolo,  il rabbino attraverso cui fu compiuta la legge, e le nostre parole.  Vieni a proclamare con me che già quell'ora s'approssima,  che sta nascendo, il regno. "E qual'è il disegno del Signore?" domandai.  Ecco, è questo regno.» Il 23 agosto la Romania aveva abbandonato l'Asse e si era alleata ai russi, che poterono  così attraversarla in forze e penetrare in Bulgaria. Dopo soli quattro giorni il rombo dei  cannoni già oltrepassava il confine bulgaro e giungeva dalle montagne fino a Bor.  L’eco di  quelle cannonate giunge fino a noi da una poesia del 30 agosto: la prima Razglednica, che  inaugura un ciclo di quattro brevi messaggi in versi alla moglie che chiamò, con nome  serbo, cartoline postali. È datata agosto-settembre la lunga, toccante Lettera alla moglie.  Il 6 settembre del '44 l'avanzata dell'armata sovietica in Bulgaria e la forte pressione dei  partigiani di Tito indussero i tedeschi ad evacuare cinque lager su sette, compreso  l’Heidenau, in tutto cinquantamila deportati.  Il "battaglione" di forzati ungheresi, fra cui  Radnóti, fu costretto a percorrere a passo veloce i trenta chilometri che separano Žagubica  da Bor. Chi si fermò o cadde sfinito lungo il percorso fu ucciso sul posto. Da questa  esperienza nacque due settimane dopo la poesia Marcia forzata. I deportati furono  ammassati nei due lager più vicini a Bor. Radnóti finì nel lager Brünn, in cui fu costretto  con gli altri a costruire fortificazioni, volute dai tedeschi nell'illusione di poter opporre  resistenza all'avanzata nemica.  Il 15 settembre i deportati furono radunati tutti insieme nel lager centrale, il Berlin, e  divisi in due gruppi in vista del viaggio di ritorno in Ungheria. Il poeta era stato assegnato al  secondo, ma un ufficiale "benevolo" acconsentì a spostarlo in quello destinato a lasciare il  campo per primo. Per ironia del destino, il gruppo cui Radnóti era stato originariamente  destinato partì due settimane dopo ma il 30 settembre, dopo un sol giorno di marcia, fu  liberato dai partigiani serbi. Fu un amico assegnato a quel gruppo, cui il poeta aveva dato  per precauzione una copia delle poesie scritte in quei giorni, a portare alla moglie, oltre ai  versi, la notizia che il suo Miklós era ancora vivo.  Dopo due giorni, il 17 settembre, la partenza. La situazione militare rendeva impossibile  il trasferimento in treno, così i 3500 deportati del primo gruppo dovettero rimettersi in  marcia, passando a volte attraverso le montagne, scortati da un centinaio di soldati  ungheresi, al comando del tenente Ferenc Pataki. Sappiamo qualcosa di questa lunga  ritirata grazie alle testimonianze dei pochi sopravvissuti, tra le quali particolarmente  attendibile è quella di Charles Chany, docente all’Università di Parigi.  Sottoalimentati, resistevano a malapena alla fatica.   Ma il peggio doveva ancora venire. A Pancsova le Volks-SS (arruolate nella minoranza  tedesca del luogo) vennero a rinforzare la scorta, dandosi il cambio ad ogni tappa. Ai  prigionieri non fu più distribuito regolarmente né da bere né da mangiare. I tedeschi  sparavano su chi si attardava.   A due settimane dalla partenza erano a Jabuka. Qui centotrentatre deportati furono  uccisi, dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. I loro corpi furono ritrovati dagli  jugoslavi nel '45.   Sette giorni dopo, venerdì 6 ottobre, raggiunsero Črvenka, dove le SS tedesche si  sostituirono ai soldati ungheresi. Questa sosta durò quattro giorni, ma ai prigionieri non fu  concesso di riposare: vennero nuovamente obbligati  al lavoro forzato in una fabbrica  vicina.  Il 6 ottobre il poeta scrisse la seconda Razglednica, in cui il lo sfondo bucolico fa  ancora una volta da contrasto al mondo in fiamme. Meno di ventiquattro ore dopo, nella  notte fra il 7 e l'8 ottobre, le SS massacrarono a Črvenka fra settecento e mille deportati.  Marciarono poi fino a Mohács, poco oltre il confine ungherese, dove il 24 ottobre furono  composti i versi della terza Razglednica.  A Mohács le SS caricarono le poche centinaia di sopravvissuti sui carri bestiame, che li  scaricarono a Szentkirályszabadja, vicino al lago Balaton. Lì Radnóti compose il 31 ottobre  del '44 la quarta Razglednica. In essa il sangue dell'amico violinista Miklós Lorsi,  ammazzato a fianco a lui con un colpo in testa, si mescola al fango dell'atroce commento in  tedesco dell'uomo delle SS che gli aveva appena  sparato: «Quello salta ancora!».  Sono questi versi, lucidi e affilati come una lama, a concludere e consegnare ai posteri  l'opera poetica di Miklós Radnóti.  Novembre ‘44 - giugno ‘46: oltre la morte, il taccuino di Bor Prima di lasciare Szentkirályszabadja il gruppo decimato dalle SS  fu riaffidato ai militari  magiari, coadiuvati - ora che si era su suolo ungherese - dalla locale milizia nazista delle  Croci Frecciate. Molti ancora degli ebrei del battaglione di lavoro che erano sopravvissuti ai  tedeschi sarebbero stati da loro massacrati.  Riprese la marcia, ma Radnóti finì col lasciarsi cadere in terra sfinito. Lo tirarono su in  due e se lo presero a spalla. Un testimone riferisce che il crollo fisico del poeta fu dovuto  alle violente percosse di un militare ubriaco, che continuava a deriderlo chiamandolo  "scribacchino". Dopo un paio di giorni raggiunsero Écs. I ventidue che non erano più in grado di  camminare, fra cui Radnóti, furono ammucchiati su due carri trainati da cavalli e affidati al  sergente András Tálas, che insieme a quattro soldati ungheresi li avrebbe dovuti far  ricoverare nella vicina Győr; Un sopravvissuto ha raccontato di aver visto per l’ultima volta  il poeta seduto sul bordo di uno di quei carri, con i piedi che penzolavano, piagati e  sanguinanti. Mentre i cavalli li portavano verso Győr, non è difficile immaginare i ventidue  deportati con già negli occhi un brandina, un'infermiera, qualcosa da bere e da mangiare,  ma non andò così. Prima l'uno, poi l'altro dei due ospedali della città, sovraffollati, non li  accettarono. La pattuglia di Tálas si trovò così a dover decidere che fare di questo gruppo di  prigionieri.   Era il 4 novembre 1944. I due carri furono condotti presso la riva del fiume Rábca, non  lontano dalla città di Abda, dove fu scavata una gran fossa. Fu il sergente Tálas ad  ammazzarli ad uno ad uno con un colpo di pistola alla nuca, sul bordo di quella fossa. Dopo  la fine del conflitto Tálas fu processato e giustiziato per crimini di guerra.   «Un colpo nella nuca. - Anche tu dunque finirai così - » Il poeta l’aveva scritto, soltanto quattro giorni prima, nella sua ultima Razglednica.  Sul luogo del massacro c’è ora il Radnóti Memorial: una lapide, un busto, una statua e  intorno un parco tra le betulle.  A fine giugno del '46, quando il corpo di Radnóti fu riesumato, in una tasca  dell’impermeabile che aveva indosso fu rinvenuto il taccuino di Bor; era sopravvissuto  perché giungessero fino a noi, nelle uniche pagine completamente leggibili nonostante i  venti mesi di interramento, proprio e soltanto i versi che altrimenti sarebbero andati  perduti, quelli scritti durante i tre mesi dell'ultima, estenuante marcia di seicento  chilometri dai lager serbi verso la patria e verso la morte.  Il taccuino di Bor fu pubblicato in  facsimile in Ungheria nel 1971. La prima edizione andò esaurita in pochi giorni, e varie altre  la seguirono.  Il 12 agosto del ‘46 la vedova fu accompagnata da tre amici fino a Győr, per riportare a  casa il corpo del marito. Volle recarsi nella vicina  Abda, sul luogo del massacro. Nella fossa  comune era spuntato un arbusto; in cima agli steli i piccoli fiocchi bianchi del cotone. Fanni  colse uno stelo per sé, mormorando: «Mi sembra che sia questa l’autentica tomba di Miklós,  molto più di quella di Budapest.» Uno stelo di cotone sarebbe stato preso a simbolo della  mostra commemorativa per il centenario della nascita del poeta. Due giorni dopo fu  definitivamente sepolto nel cimitero Kerepesi di Budapest.   Miklós Radnóti è stato deriso, percosso, ridotto allo stremo e infine ucciso da chi si  illudeva così di nientificare la sua dignità di uomo, di cancellare il suo nome dalla faccia  della terra. Non ci sono riusciti.  I suoi versi, quelli scritti nel fango, sotto il tallone dell’oppressore, testimoniano il  prevalere dell’uomo, nonostante tutto, sulla stolta arroganza dei servi del nulla di ogni  tempo; e il tempo alla lunga fa giustizia, lasciandosi dietro le spalle ogni scoria e portando  bene alto con sé quel che di vivo permane.   Fu questa consapevolezza, non estranea alla sua fede, a dargli la forza di percorrere da  vivo il cammino verso la morte. Quanto al destino dei suoi versi, va ben oltre quello  profetizzato nel ‘38 dai versi della sua Prima egloga:  ...può accadere che il vento smuova le braci del rogo e trovando qua e là qualche verso ne prenda nota.
Il murale di Picasso
1936. Il 5° libro
Parigi  nel 1937
Il mese dei gemelli manoscritto
L’antologia del’40
Judit Beck autoritratto
La miniera e le baracche
Di nuovo insieme
SECONDA PARTE
Lavoro forzato
Ebrei ai lavori forzati
Il manoscritto della traduzione
Budapest 19 marzo 1944
Bor - l’ingresso al lager Berlin
Monumento a Radnoti
Il lager Berlin
La fossa di Jabuka 
Razglednica 2 e 3 
Croci Frecciate
padre Sik 
Il manoscritto di Frammento
Sui carri bestiame  
Bor oggi: il cimitero, in fondo la miniera  
1938. Il 6° libro
Győr: ospedale 
In miniera  con gli zoccoli
Il taccuino di Bor 
L’ultima cartolina
Il parlamento di Budapest nel ‘38
La tomba di Radnóti a Budapest 
Auschwitz 1°maggio ‘44 Ebrei dall’Ungheria
La cattedrale di Budapest
Lavoro forzato
Le baracche
Ottava egloga manoscritto
La via di accesso al lager di Bor
Adunata nel lager
Razglednica 4
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prima parte
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