Ultima modifica: 3 febbraio 2014
Innanzitutto una poesia (ogni opera poetica) deve avere una moltitudine di significati. In India (ai tempi di Kalidasa)  se ne contavano nove. Possono essere anche di più, e gli ultimi sono ormai al di fuori della lingua, intraducibili e ignoti al  poeta stesso, ma se i primi due o tre sono sicuri e profondi, non saranno tali gli ultimi. L’autore non è nemmeno obbligato a  intuirli, ma per il lettore essi, come i veli di Salomè, cadono uno dopo l’altro, comunque gli ultimi restano tormentosamente  irraggiungibili. Quanto più ispirato è il poeta, tanto più profondamente i significati misteriosi si radicano nell’infinito.  Inoltre, certo, nella poesia i “significati” non sono costruzioni razionali, ma piuttosto assennate formazioni plastico-musicali  che ruotano attorno a un nucleo irraggiungibile, come gli anelli di Saturno.  Ne consegue che in sostanza una poesia è simile a un essere vivente, che pure consta di molte parti. (Ed è anche un  essere vivente. In generale, “morto” o “vivo” è il principale criterio estetico.) Essa ha una sua vita perfino quando muore la  lingua in cui è stata composta. Forse è una piccola divinità, non antropomorfica, come il Signore stesso. (Anche se è stato  detto: “Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza”, però con l’aggiunta: “affinché domini” – solo in questo senso  simile a Dio, non per aspetto esteriore e per struttura.) I versi sono simili a una costruzione viva, a un edificio: possiedono  uno spazio interiore, dove si può passeggiare, dentro di essi si può correre, volare o dormire.  La forma interiore dei versi può essere estremamente semplice – come un sospiro (o un respiro). È la cosa più  difficile, versi simili in tutta la poesia mondiale sono pochissimi, perché non te li puoi inventare. Non li troverai  intenzionalmente e non escogiterai nulla. Oppure – l’opposto – una complessa forma barocca, il cui coronamento è la  “vision avventura” (termine mio). Quando il poeta cade in uno stato sovrannaturale, gli appare una visione, in seguito essa  crea se stessa, avviene. Si volge dove vuole. Sono le mie due forme preferite, in sostanza vicine. Ogni creazione è “sinergia”,  nel senso della creazione di due forze: l’intelletto e l’ispirazione (per dirla rozzamente); in questi casi il secondo elemento  prevale. Sono intermediari tra l’intelletto e il sovra-intellettuale. La poesia è come uno strumento, un mezzo, con l’aiuto del  quale si ottiene la conoscenza che non può essere trovata in altro modo (là dove la logica e la filosofia sono impotenti). Essa  si immerge nei cieli o dove si vuole: sotto la corteccia di un albero, sotto la pelle e, sottomettendosi non più alla volontà del  suo creatore, ma alla propria logica e musica interna, penetrando arbitrariamente l’oggetto di studio, raggiunge l’immagine.  L’immagine spesso è incomprensibile all’autore. Tempo fa composi la poesia “La belva-fiore”, su una persona che fiorisce,  dalla quale all’improvviso sono cresciuti diversi fiori. E solo poco tempo fa ho avuto l’illuminazione che questa è l’immagine  dello scettro fiorito di Aronne (che nel tabernacolo è fiorito come mandorlo) – in segno di elezione.  Nella misura in cui una poesia è viva, essa vibra. Ciò si esprime non solo nel suono, nel gioco dei ritmi, nelle loro  pause, ma piuttosto nello scontro tra oggetti e creature, citate in esse, nel contrappunto del senso. Per esempio, nella poesia  “Il cardellino” di Osip Mandel’stam compare la tensione di una collisione – gli spazi, involontariamente congetturati, delle  steppe di Voronez, la verticale di un albero, e due punti energetici: gli occhi del cardellino e gli occhi del poeta, la vibrazione  del loro sguardo. “Come sei uomo”, potrebbe dire anche il cardellino (in risposta al: “Come sei cardellino” del poeta). In  tutta la poesia il cardellino sta adagiato, fissando l’uomo, l’uomo si erge, fissando l’occhio dell’uccello, d’un tratto, alla fine:  “esso guarda da una parte e dall’ altra – a occi spalancati, è volato via” (da una parte e dall’altra – nei due mondi):  all’improvviso si libra in volo, il frullo delle ali…  Dove c’è la lotta dei significati, lì c’è lo scontro del suono. La poesia è il modo di raggiungere l’immateriale (spirituale)  attraverso mezzi semimateriali. Si vede subito come è vestita una poesia: da quale famiglia proviene, di quali mezzi dispone.  Così, nella lirica “Ecco vado su una grande strada” (la mia preferita) di Tjutcev, all’inizio, quando ancora vive la speranza in  risposta alla domanda “mi vedi?”, prevalgono le “d”, che verso la fine si assordano in “t”: inciampo, disperazione. Tutta  questa poesia è una speranza flebile e – ahimè! – desolazione. Con queste “t” viene data una risposta celata e disperata.  Versi così semplici in generale sono i più tormentosi e i più misteriosi.  Tuttavia per me è preferibile la musica dei versi, complessa e spezzata, frammentaria (simile alla musica di inizio  secolo, che però non cade nello sfascio sonoro di quella più recente). La poesia occidentale non ne ha potuto trovare una  simile e con ottusa mansuetudine, come una pecora, è andata alla carneficina del verso libero (prosa mediocre). L’altro  estremo è il classicismo artificioso. La mia preferenza è il limite tra l’armonia e la dodecafonia. Sognavo di trovare un ritmo  simile, affinché cambiasse con ogni mutamento di senso, con ogni nuova sensazione o percezione.  Quanto più forte è la musica propria della poesia, tanto meno si adatta al canto. La poesia è distinta non solo dalla  melodia esteriore, ma anche dalla religione interiore. Essa stessa in sé è musica e fede. L’individualità poetica lascia la sua  traccia in ogni sillaba, parola, verso, è come la nazionalità o l’età. Una volta Pindaro si addormentò sul monte Elicona, caro  alle Muse, sognò di tramutarsi in arnia, e sulla sua bocca si posarono le api. Al risveglio, cominciò a scrivere versi. Quando  mi sveglierò, i versi si alzeranno in volo, come api, sibilando e giocando, e prenderanno completamente il mio posto.    Dal mensile “Poesia” del settembre 2010 -Traduzione Paolo Galvagni
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Poesia come musica e fede Elena Schwartz, 1996
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